Il Giappone che conosciamo dai documentari e dalle cartoline non esiste in Un affare di famiglia. Non ci sono grattacieli, né templi. Non c’è tecnologia futuristica, niente Shinkansen, niente ciliegi in fiore.
C’è una casa fatiscente alla periferia di Tokyo. Cinque persone ci vivono ammassate, sopravvivono rubando nei supermercati, lavorano a giornata sottopagati. Una sera d’inverno, padre e figlio trovano una bambina abbandonata su un balcone. La portano a casa. Anche lei diventa parte della famiglia.
Un affare di famiglia (Manbiki kazoku, letteralmente “Famiglia di taccheggiatori”) è il film del 2018 diretto da Hirokazu Kore-eda che ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Il regista giapponese, nato a Tokyo nel 1962 e cresciuto nei danchi (complessi di edilizia popolare degli anni Cinquanta), ha scritto la sceneggiatura dopo aver visitato orfanotrofi e studiato report sulla povertà e sulla piccola criminalità nella capitale giapponese.
Il film racconta di Osamu (Lily Franky), operaio a giornata, sua moglie Nobuyo (Sakura Andō), il ragazzino Shota, la giovane Aki e la nonna Hatsue, che vive della pensione del marito defunto. Insieme formano una famiglia non di sangue, ma di scelta. Si aiutano, si vogliono bene, condividono tutto. Finché un incidente non rivela segreti che fanno crollare ogni certezza.
Kore-eda ha dichiarato di aver sviluppato il progetto partendo da una domanda: “Cosa rende una famiglia tale?”. La risposta non è semplice. Il film mostra che l’amore può esistere anche dove non c’è legame biologico, ma anche che la sopravvivenza ai margini ha un prezzo altissimo.
La critica internazionale ha accolto il film con entusiasmo quasi unanime. Su Rotten Tomatoes ha ottenuto il 99% di recensioni positive. Roger Ebert lo ha definito uno dei film più emozionanti e potenti dell’anno. Peter Bradshaw del Guardian ha alzato la sua valutazione da 4 a 5 stelle dopo una seconda visione. Il film è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero.
In Giappone ha incassato 4,55 miliardi di yen, diventando il quarto film nazionale più visto del 2018. In Cina ha fatto 14 milioni di dollari, risultato straordinario per un film d’autore straniero.
Kore-eda usa inquadrature lunghe, angoli stretti, movimenti di macchina minimi. Lo stile è sobrio, quasi documentaristico. I personaggi parlano poco, ma ogni gesto conta. La fotografia su pellicola 35mm restituisce la texture della povertà urbana senza mai scadere nel pietismo.
Il film denuncia anche le condizioni di lavoro in Giappone contemporaneo: turni ridotti per pagare meno, lavoro nero, precarietà. Mostra una società che fallisce nel proteggere i più deboli, a partire dai bambini.
Un affare di famiglia non offre soluzioni facili. Alla fine, ogni personaggio deve fare i conti con le proprie scelte. Ma resta la memoria di quei momenti felici: un giorno al mare, un pasto condiviso, il calore di una casa vera.


