Nelle osterie di un tempo si guardava chi beveva troppo con pietà e vergogna. L’ubriaco era un posseduto. La tradizione popolare gli metteva addosso un’immagine precisa: una scimmia appollaiata sulle spalle che lo spingeva a bere, che gli graffiava il viso se tentava di rifiutare. Nella cultura popolare europea l’animale incarnava l’orrido, il pericoloso, ciò che fa perdere il controllo.
Questa immagine attraversa i secoli e si sposta dall’alcol alla droga. Nel 1953 William Burroughs pubblica Junky sotto pseudonimo, raccontando quindici anni di dipendenza da eroina. Il titolo italiano, La scimmia sulla schiena, rende esplicito quel peso invisibile. Per Burroughs la scimmia è dolore fisico, morde la schiena quando l’effetto svanisce. È la crisi di astinenza descritta con lucidità chirurgica, senza retorica.
“Un tossicomane è un uomo in cerca di una cura”, scrive, “perché l’astinenza è peggio della malattia stessa”. Non c’è giudizio morale, solo l’annotazione precisa di un fenomeno. La scimmia diventa simbolo di un vuoto che esige di essere riempito.
L’espressione è entrata nel gergo comune con significati più ampi. Si può avere la scimmia per una bicicletta, per una serie tv, per una persona. Ma l’origine resta lì, nel folklore che vedeva l’alcolizzato come vittima di una presenza ostile. Una bestia che non scende, che pesa, che pretende. E forse ogni desiderio ossessivo porta con sé qualcosa di quella scimmia antica: il peso di non poter smettere, la sensazione che qualcosa ti stia cavalcando le spalle senza che tu possa scrollartela di dosso.
La scimmia sulle spalle
Categorie


