Fastobal scrive al femminile: perché il maschile non è l’unica voce possibile.

Napoli – New York, quando eravamo noi gli stranieri

Un film che commuove senza chiedere il permesso, “Napoli – New York” di Gabriele Salvatores è un pugno nello stomaco e una carezza insieme. Un racconto di emigrazione che ci sbatte in faccia chi eravamo, quando nessuno ci voleva, e ci regala l’eroismo silenzioso di una bambina che sa già come si sopravvive.

1949: Napoli è una città di macerie e fame, e due bambini – Carmine e Celestina – decidono che l’oceano è meno pericoloso della miseria. Si imbarcano di nascosto verso l’America, verso quella New York mitica che per noi italiani fu promessa e condanna. Salvatores non gira un film: costruisce una memoria. E lo fa partendo da un soggetto inedito di Fellini e Pinelli, ritrovato per caso come un tesoro sepolto.

Il risultato è poesia cruda. La guerra – quella vera, coi morti sotto i calcinacci – non fa da sfondo, ma da motore. E ogni immagine sembra uscita da una cronaca siriana, palestinese, ucraina. Non c’è nulla di superato: c’è solo l’infanzia che oggi come allora paga il conto delle bombe.

Ma il cuore del film è lei: Celestina. Una piccola donna senza tempo, che prende in mano la propria vita con una fermezza che oggi chiameremmo femminismo, ma che allora era solo sopravvivenza. Sfida i ruoli, le paure, le ingiustizie. È lei che guida, che sogna, che resiste. Altro che “angelo del focolare”: è una comandante in miniatura.

“Napoli – New York” ci racconta la verità che fa male: eravamo noi quelli sporchi, affamati, indesiderati. Quelli che la polizia di frontiera rimandava indietro. E ci fa capire, senza retorica, che chi fugge oggi non è così diverso.

Una regia sobria, immagini potenti, recitazione autentica. Favino fa il suo mestiere, ma sono i bambini – Antonio Guerra e Dea Lanzaro – a prendersi il palcoscenico, senza bisogno di urla. Solo occhi, fiato corto e quella disperata voglia di vivere.

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