Fastobal scrive al femminile: perché il maschile non è l’unica voce possibile.

La letteratura insegna. A volte anche a rubare

Domenica mattina. Il Louvre apre. Nove e mezza. Quattro uomini incappucciati salgono su un montacarichi dal lato della Senna, dove ci sono lavori in corso. Hanno sette minuti. Galleria d’Apollon, primo piano. Vetrine infrante. Nove gioielli di Napoleone spariti: collana, spilla, tiara. Oro, smeraldi, diamanti. Fuga su scooter. Due pezzi recuperati, tra cui la corona dell’imperatrice Eugenia, danneggiata. Il resto: volatilizzato.

Il ministro dell’Interno francese parla di “valore inestimabile”. La Procura apre un’inchiesta. Il Louvre evacuato, chiuso per l’intera giornata. I turisti spaesati davanti alla piramide. La polizia che rovista tra tracce e video. L’eco mediatica che rimbalza.

E chi ha letto Maurice Leblanc sorride. Perché questa storia l’ha già sentita.

Nel 1906 Leblanc pubblica “Le Collier de la Reine”, racconto che fa parte della prima raccolta delle avventure di Arsène Lupin. È la storia del primo furto del gentleman cambrioleur, quando aveva sei anni. Il collier leggendario di Maria Antonietta, custodito dalla famiglia Dreux-Soubise. Una notte scompare. Porte sigillate, nessuna effrazione. La polizia non risolve mai il caso. Decenni dopo, Lupin adulto racconta tutto durante una cena mondana: era lui, bambino, nascosto in un passaggio segreto tra le mura. Lo fece per sua madre, governante umiliata dai conti. Furto perfetto. Poi, da gran signore, restituisce il gioiello con un biglietto beffardo.

Leblanc amava giocare con la Storia di Francia, mescolarla alla finzione fino a confondere i confini. Lupin ruba al Louvre più volte — la Gioconda nel 1907, prima ancora che accadesse davvero nel 1911. I gioielli della corona, le opere d’arte, i tesori imperiali: tutto diventa scena per il ladro elegante, quello che trasforma il crimine in spettacolo.

E oggi? Oggi qualcuno entra al Louvre, ruba proprio i gioielli di Napoleone dalla Galleria d’Apollon — la stessa galleria che custodisce i simboli dell’impero, quella che Leblanc avrebbe adorato mettere in scena — e lo fa con una precisione che sa di romanzo. Troppo simile per essere un caso. Troppo Lupin per essere solo un furto.

Certo, la realtà è meno romantica. Niente biglietti galanti, niente restituzione teatrale. Solo una corona danneggiata ritrovata fuori dal museo e sette gioielli dispersi. Ma il gesto resta: audace, rapido, studiato. Come se qualcuno avesse letto i libri giusti e avesse deciso di metterli in pratica.

Leblanc scriveva che Lupin era “l’uomo dai mille travestimenti”, capace di diventare operaio, guardiano, restauratore. Domenica scorsa, due dei quattro ladri indossavano gilet gialli da operai. Entrati con un montacarichi, come se stessero lavorando. Nessuno ha sospettato nulla fino a quando non era troppo tardi.

La letteratura insegna. A volte anche a rubare.

Il furto del Louvre non è il primo, e non sarà l’ultimo. Ma è il primo che sembra davvero scritto da Maurice Leblanc. E forse è proprio questo il vero colpo di genio: non solo rubare gioielli inestimabili, ma farlo in un modo che entri nella leggenda, che faccia parlare di sé come si parla di Lupin. Perché alla fine, quelli che restano non sono i diamanti — quelli si fondono, si vendono, si perdono. Quello che resta è la storia.

E questa storia, ora, è scritta.

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