Fastobal scrive al femminile: perché il maschile non è l’unica voce possibile.

L’inchiostro che mi sono scelta

Il mio primo tatuaggio me lo sono fatta di nascosto.
Con quell’ansia che ti prende quando sai che stai facendo qualcosa che non si cancella.
Non sapevo niente di aghi, di tecniche, di guarigioni.
Sapevo solo che lo volevo. Non per piacere, non per moda: per dire chi ero.

Ho imparato dopo che un tatuaggio non nasce in un posto con le luci calde e la musica di sottofondo.
Nasce nei porti, nei corridoi umidi delle prigioni, nei corpi che non avevano altro modo di raccontarsi.
Era un codice, una mappa, una verità che ti portavi addosso anche quando tutto il resto ti veniva tolto.

E questa cosa mi è rimasta dentro.
Per me tatuarsi è entrare in quella storia.
Non importa se la mia vita non assomiglia a quella dei galeotti o dei marinai: ogni segno che mi sono fatta è un pezzo di strada che ho deciso di non dimenticare.

Non capisco chi lo fa per riempire uno spazio vuoto o per la foto in spiaggia.
Un tatuaggio è una promessa con te stessa: resterà quando sarai cambiata, quando avrai altri pensieri, quando il disegno non sarà più perfetto.
Se lo fai per seguire un trend, quando quel trend passa ti resta solo un segno che non ti parla più.

Io invece li porto come cicatrici scelte.
Sono la mia armatura, la mia memoria.
Non li guardo per compiacere qualcuno. Li guardo per ricordarmi che questa pelle è mia, e che nessuno può togliermi quello che ho deciso di scriverci sopra.

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