A quasi novant’anni anni, Woody Allen pubblica il suo primo romanzo. Centonovantadue pagine. “Che succede a Baum?”, per La Nave di Teseo, tradotto da Alberto Pezzotta. Viene da chiedersi perché così tardi. La risposta, forse, sta nel libro stesso.
Asher Baum è uno scrittore ebreo di mezza età. Ex giornalista, poi romanziere, poi drammaturgo. Nessuno lo prende sul serio. L’editore lo ha mollato. I libri filosofici che scrive ricevono recensioni tiepide. Il terzo matrimonio va a pezzi. Sospetta che la moglie, laureata ad Harvard, abbia una storia col fratello. O col vicino. È geloso del figlio di lei, uno scrittore più affermato. Durante un’intervista ha provato a baciare una giovane giornalista. Lei sta per renderlo pubblico. Baum ha iniziato a parlare da solo per strada. La gente lo evita.
Se questa storia ti sembra familiare, è perché lo è. Alexandra Jacobs sul New York Times ha scritto che leggere questo romanzo è come passeggiare a Washington Square Park e pestare una cacca di cane. Baum è identico a tutti i personaggi che Allen ha messo in scena in cinquant’anni. Newyorkese, nevrotico, ossessionato dalla morte e dal fallimento. Il problema è che funziona lo stesso.
Allen dice di aver scelto il romanzo perché voleva che Baum parlasse da solo ad alta voce. Al cinema sarebbe stato complicato. E in effetti i dialoghi interiori di Baum, declamati per strada come un Amleto ebreo smarrito a Manhattan, sono la parte migliore del libro. Woody Allen sa scrivere. Sa far ridere. Sa essere feroce. E questo romanzo lo dimostra.
C’è ironia tagliente quando descrive il mondo dell’editoria. Editori che vogliono più sentimentalismo e meno riflessione. Una cultura che preferisce le emozioni facili al pensiero profondo. Qui Allen colpisce nel segno. Ma c’è anche la sottotrama dello scandalo. Baum viene “cancellato” dopo l’episodio con la giornalista. Allen lo tratta con autoironia, ma anche con una difesa nascosta. E capisci che sta parlando di sé. È questo che rende il libro interessante. È un’autobiografia mascherata.
La critica europea è stata più indulgente di quella americana. Il Telegraph lo ha definito “un film di Woody Allen da leggere”. E in effetti il ritmo è quello. I dialoghi sono serrati, brillanti. Le scene si susseguono come sequenze cinematografiche. Ma manca l’introspezione che solo un romanzo può dare. Allen parla, declama, non entra mai davvero nella testa di Baum.
Il New York Times conclude dicendo che Allen merita sempre. Anche messo all’angolo, riesce a tirare fuori “un pezzo di prosa autunnale” come altri giocherebbero a pickleball. È un complimento ambiguo. Significa: è bravo, ma questo non basta.
Eppure il libro vale la pena. Non per la novità – qui non c’è niente di nuovo. Ma per la capacità di Allen di restare fedele a se stesso, senza scuse, senza concessioni continuando a parlare della stessa New York, delle stesse nevrosi, degli stessi intellettuali paralizzati dall’ansia. E lo fa con la stessa lucidità feroce di sempre. È questo il peso di essere Woody Allen. E forse anche la sua unica libertà.


