Michael Eugene Archer è morto martedì 14 ottobre. Il mondo lo chiamava D’Angelo. Aveva 51 anni. Tumore al pancreas. Pochi lo sapevano, perché lui parlava poco. Si ritirava. Tornava quando voleva.
Tre album in trent’anni. Brown Sugar nel ‘95, Voodoo nel 2000, Black Messiah nel 2014. Ogni disco cambiava qualcosa dentro. Ma D’Angelo non faceva musica per accontentare nessuno. La faceva per andare più a fondo.
Voce calda, sospesa. Capace di tenere insieme Al Green e Marvin Gaye senza tradire nessuno dei due. Con i Soulquarians — Erykah Badu, Questlove, J Dilla, Q-Tip — ha dato vita al neo-soul. Ma quel nome non gli è mai piaciuto. «Voglio crescere come artista», diceva.
Untitled (How Does It Feel) l’ha reso famoso oltre ogni misura. Il video — lui nudo, una croce al collo, che canta guardando in macchina — ha sconvolto MTV e BET. Ma quella fama è costata cara. Si è ritirato per quasi quattordici anni. Schiacciato dalle aspettative, dai problemi personali, da un’industria che voleva un sex symbol, non un artista complesso.
Poi è tornato. Black Messiah, nel 2014. Musica densa, politica, spirituale. Due Grammy. La conferma che D’Angelo era un visionario.
Ha collaborato con Jay-Z, Lauryn Hill, Snoop Dogg, The Roots. Nel 2024, Raphael Saadiq aveva detto che stava lavorando a sei pezzi nuovi. Forse li sentiremo. Forse no. Ma quello che ha lasciato basta.
Era padre di tre figli: Michael II, Morocco, Imani. Michael II l’aveva avuto con Angie Stone, cantante soul morta in un incidente stradale a marzo 2025. Non si erano mai sposati, ma avevano avuto una storia importante.
D’Angelo credeva nella musica come ministero. «Il palco è il nostro pulpito», diceva. «Ma devi stare attento».
Non ha mai cercato il consenso facile. Ha chiesto ascolto, rispetto, tempo. Chi glielo ha dato ha ricevuto in cambio una delle voci più profonde della musica contemporanea.


