Il boicottaggio dei prodotti israeliani attraversa le nostre coscienze con la forza di un gesto morale necessario. Nei supermercati, davanti ai datteri di Medjoul o ai cosmetici del Mar Morto, migliaia di persone scelgono di girare lo sguardo, di non comprare, di dire no. È un atto simbolico che porta con sé il peso di una protesta autentica. Ma la realtà economica racconta una storia diversa, più complessa e scomoda.
I numeri parlano una lingua che non ammette interpretazioni. Nel 2024, nonostante la devastazione di Gaza e l’indignazione mondiale, l’Unione Europea ha aumentato di un miliardo di euro i propri scambi commerciali con Israele, raggiungendo quota 42,6 miliardi. L’Italia, tra i principali partner, ha esportato 3,3 miliardi di euro verso Tel Aviv. Mentre nelle piazze si gridava al boicottaggio, nei consigli di amministrazione si firmavano nuovi contratti.
La vera scoperta, però, è un’altra. Come documenta il centro di ricerca SOMO, l’Europa è il primo investitore al mondo in Israele con 72,1 miliardi di euro nel 2023, quasi il doppio degli Stati Uniti. Non si tratta solo di export di macchinari o prodotti chimici. È una rete di interdipendenze che tocca settori strategici: cybersecurity, intelligenza artificiale, tecnologie mediche, sistemi di difesa.
Israele ha costruito, in settant’anni, quello che potremmo chiamare un sistema economico autoprotettivo. Non vende solo arance o software. Sviluppa le tecnologie che fanno funzionare i nostri smartphone, i sistemi di sicurezza dei nostri aeroporti, i farmaci che curano le nostre malattie. Intel ha i suoi centri di ricerca più avanzati a Haifa. Microsoft, Google, Amazon hanno stabilito partnership strategiche con università e aziende israeliane. Pegasus, il software spia che ha fatto tremare i governi di mezzo mondo, nasce dalle competenze sviluppate nell’Unità 8200, il reparto di intelligence militare israeliano.
Qui sta il paradosso del nostro tempo. Il boicottaggio nasce dalla stessa logica che rese possibile l’isolamento del Sudafrica negli anni Ottanta. Ma il Sudafrica dell’apartheid era un’economia estrattiva, basata su oro, diamanti, materie prime. Sostituibili. Israele ha fatto una scelta diversa: è diventato indispensabile.
Le sanzioni contro il Sudafrica, iniziate nel 1986, non furono immediate né decisive. Come documenta la ricerca storica, il crollo economico del regime precedette l’isolamento internazionale ed ebbe cause endogene: la crisi del debito, la rivolta delle township, l’insostenibilità sociale del sistema. Le sanzioni arrivarono quando il regime era già agonizzante e servirono più come acceleratore che come causa primaria.
Israele oggi non vive quella crisi. Al contrario, il settore high-tech ha raccolto 11,04 miliardi di euro nel 2024, in crescita del 31%. L’indice delle settanta principali società tecnologiche israeliane quotate al Nasdaq è aumentato del 15,8%. La guerra, paradossalmente, ha rafforzato la percezione di Israele come partner strategico indispensabile.
Il caso dei Paesi Bassi è emblematico. Amsterdam concentra da sola due terzi di tutti gli investimenti israeliani nell’Unione Europea. Non si tratta solo di elusione fiscale. La Banca centrale olandese certifica che solo il 12% di questi investimenti proviene da società “cassaforte”, mentre l’88% deriva da attività di economia reale. È un’integrazione profonda, strutturale.
Questo non significa che il boicottaggio sia inutile. Ha un valore simbolico potente, costringe al dibattito, mantiene viva l’attenzione. Ma dobbiamo essere onesti sui suoi limiti. Quando Francesca Albanese, relatrice ONU per i territori palestinesi, pubblica il suo rapporto “Dall’economia di occupazione all’economia di genocidio” fotografa un sistema economico globale dove Israele è diventato un nodo ineludibile.
Google e Amazon gestiscono l’infrastruttura cloud del governo israeliano. IBM mantiene database biometrici per il controllo della popolazione palestinese. Lockheed Martin e Leonardo forniscono componenti per l’industria bellica. Ma questi stessi attori sono parte integrante dell’economia digitale europea. Isolarli significherebbe isolare noi stessi.
La verità scomoda è che il boicottaggio individuale tocca la superficie di un’economia che ha radici profonde nelle nostre società. Ogni volta che usiamo un processore Intel, navighiamo con tecnologie di cybersecurity israeliane, assumiamo farmaci sviluppati con ricerche congiunte, partecipiamo inconsapevolmente a quel sistema che vorremmo boicottare.
Se vogliamo costruire una pressione efficace su Israele, dobbiamo guardare oltre il boicottaggio dei consumatori. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di sospendere gli accordi di associazione, di fermare i finanziamenti alla ricerca militare, di interrompere le partnership strategiche. È a quel livello che si giocano le partite vere.
Ma anche qui, la strada è in salita. Come dimostra il caso della sospensione dell’accordo UE-Israele, discussa e rimandata da mesi, manca l’unanimità tra i ventisette Stati membri. Troppi interessi in gioco, troppi vantaggi economici da sacrificare.
Forse il boicottaggio ci insegna qualcosa di diverso da quello che speravamo. Non tanto l’efficacia di un gesto individuale, quanto la complessità di un mondo dove le interdipendenze economiche rendono quasi impossibile tracciare linee nette tra “noi” e “loro”. È una lezione amara, ma necessaria. Perché solo riconoscendo l’entità del problema possiamo iniziare a immaginare soluzioni all’altezza della sfida.
Fonte:
- Centro di ricerca SOMO: “Le relazioni economiche UE-Israele” (luglio 2025)
- Eurostat: “Scambi commerciali UE-Israele 2024”
- Altreconomia: “Gli interessi economici dietro le mancate sanzioni europee verso Israele”
- Rapporto ONU Francesca Albanese: “From Economy of Occupation to Economy of Genocide”
- Money.it: “Con quali Paesi fa affari Israele? La mappa delle relazioni economiche 2025”


