Ogni nome porta con sé un’eredità e una vertigine.
È questa la frase che mi torna in mente ogni volta che apro il calendario delle sfilate.
Perché chi ama la moda – e non parlo di chi la consuma, ma di chi la sente nelle viscere – sa che ogni debutto è una ferita e una rinascita.
Un nuovo direttore creativo non è solo una persona: è un accento spostato nella grammatica di una maison. È una mano che apre l’archivio e decide se sfiorarlo o stravolgerlo. È una visione che può scuotere, deludere, incantare. Ma mai lasciare indifferenti.
Settembre 2025 sarà il mese in cui la moda si guarda allo specchio e si chiede chi vuole essere.
Non ci saranno solo abiti da applaudire, ma identità da interrogare.
Versace senza Donatella è un nodo in gola. Chanel senza Virginie Viard è una pagina bianca. Balenciaga dopo Demna è una sfida ai limiti del possibile.
Eppure, chi ama davvero la moda non cerca certezze, ma brividi.
Vuole vedere Louise Trotter cucire silenzi dentro la pelle di Bottega Veneta.
Vuole ascoltare il sussurro di Jil Sander nella voce nuova di Simone Bellotti.
Vuole sentire il battito della couture in un abito che non urla, ma resta.
Ogni collezione sarà una domanda.
Siamo ancora capaci di desiderare?
Di fermarci davanti a un cappotto come fosse un poema?
Di commuoverci per un drappeggio che racconta più di mille parole?
Io sì.
E chi ama la moda, lo sa: settembre è il nostro Natale, il nostro Capodanno, la nostra rivoluzione.
Perché ogni nome porta con sé un’eredità e una vertigine.
E noi non vediamo l’ora di cadere dentro.


