Una sedia, un libro, due pagine sfogliate a fatica perché i pensieri si incastrano. Eppure si resta lì. Si continua. Non per arrivare alla fine, ma per tenere accesa una forma di presenza che altrove si è persa.
Leggere piano non è una moda, non è una terapia, non è nemmeno un hashtag. È un’abitudine che qualcuno si è tenuto stretta anche quando tutto il resto andava veloce. È il contrario esatto del multitasking: è una riga alla volta.
Non serve romanticizzarla. A volte è noiosa. A volte fa male. A volte non ti entra niente, e lo rileggi tre volte, e ancora niente. Ma è in quel vuoto lì che succede qualcosa. Quando il cervello non è costretto a capire subito, a reagire, a tradurre in like o in emoji.
Non c’è silenzio da contemplare, né lentezza da celebrare. C’è solo una persona che prova a restare con se stessa abbastanza a lungo da ascoltarsi.
Leggere piano è imparare a stare. Non per forza bene. Non per forza meglio. Ma almeno più interi.


