Ero davanti a un quadro di Anna Weyant al Thyssen-Bornemisza di Madrid (fino al 12 ottobre 2025) e mi sono chiesto: quanto mi costa dire che mi piace? Non il quadro — quello costa più del mio stipendio. Parlo del prezzo in opinioni. Se mi piace, sono un ingenuo. Se non mi piace, uno snob.
Weyant si autoritrae, come tutti. Ma la sua faccia è ambigua: non è innocente, non è furba. Sta nel mezzo. E quel mezzo mi irrita.
Forse perché io vengo da una generazione che ha imparato a diffidare della bellezza. Se qualcosa è bello, dev’esserci il trucco. Se ti colpisce subito, ti sta fregando. Weyant invece dipinge come Vermeer, ma con più fondotinta. E manda in crisi tutto quello che pensavo di sapere.
I curatori l’hanno messa tra Magritte e Balthus. Lei ne esce diversa. Stessa grammatica, un’altra lingua. Come se parlasse a noi, che abbiamo il cuore pieno di pixel.
Poi c’è Gagosian, 79 anni, suo compagno e gallerista più potente del mondo. Se ha scelto lei, un motivo c’è. Forse ha capito che la nostalgia è la vera valuta contemporanea. Non quella per ciò che abbiamo perso, ma per ciò che non abbiamo mai avuto — e che però ricordiamo lo stesso.
I quadri di Weyant sembrano un sogno già fatto. Una memoria falsa, ma credibile. È tutto finto. Ma funziona. E forse è proprio questo il punto.