C’è una donna, in Africa, che intreccia conchiglie e ossa nella pelle dei suoi sogni.
C’è una scultrice, a New York, che dà corpo a visioni dove natura, femminilità e memoria si confondono. È la stessa persona. E da oggi è anche a Roma.
Alla Galleria Borghese, fino al 14 settembre 2025, arriva “Wangechi Mutu. Poemi della terra nera”.
Un titolo che già sussurra qualcosa: poesia e terra, cioè spiritualità e materia.
Il resto lo fa il luogo, che non è neutro: la Galleria, con le sue stanze cariche di marmo, mitologia, retorica barocca.
E nel mezzo, queste figure ibride, radicate e ancestrali, come presenze che si fanno spazio tra Apollo e Paolina.
La mostra è una frattura, un confronto, una domanda aperta.
Mutu porta opere potenti, fatte di bronzo e pigmenti, animali e frammenti.
I suoi corpi si piegano, si estendono, si fondono con la terra.
E lì, in quella tensione tra l’antico e il post-coloniale, si apre un varco.
Come se l’arte contemporanea non dovesse più chiedere permesso, ma solo rispondere con presenza.