Le nuove generazioni bevono meno, l’OMS alza il tiro e gli investitori restano con il bicchiere vuoto. L’industria dell’alcol rischia grosso. E non è solo colpa del salutismo.
C’è una verità amara che serpeggia tra le pieghe dei bilanci e dei brindisi: l’industria dell’alcol è a rischio. Il mondo cambia, e con esso cambiano le abitudini. I giovani — quelli veri, quelli nati dopo il Duemila — bevono meno, escono meno, spendono meno. Non è una moda passeggera: è un’inversione culturale.
A lanciare l’allarme è stato Vivek Murthy, chirurgo generale degli Stati Uniti, proponendo etichette sanitarie simili a quelle del tabacco. Un avviso chiaro: l’alcol è cancerogeno. I titoli in Borsa, da Diageo a Pernod Ricard, hanno subito mostrato i postumi. Crolli fino al 40% in pochi anni. E non si tratta di isteria da mercato. Si tratta di numeri.
Negli Stati Uniti, la spesa per alcol tra gli over 75 è cresciuta del 72% in vent’anni. Tra gli under 25? Giù del 60%. I giovani non bevono, non vogliono. E anche dove la tradizione sembrava incrollabile — come in Giappone — le vendite calano. Asahi lo ammette: “Il problema non è solo la salute, è che stanno tutti a casa a giocare”.
La risposta delle aziende? Prezzi più alti, meno volume, più margine. “Bevi meglio, non di più” recita lo slogan di Diageo. Ma non basta. Perché a fianco cresce anche il mercato del “non-alcolico”: birre analcoliche, spiriti senza spirito. Una nicchia che inizia a pesare.
Poi c’è la minaccia normativa. L’Irlanda, dal 2026, sarà la prima a imporre etichette sanitarie obbligatorie sulle bottiglie. Dopo il fumo, ora tocca al vino. E l’Europa guarda, pronta a seguire.
Il problema è semplice: l’industria ha fatto finta di non vedere. Ha continuato a raccontarsi la favola del lifestyle, della “drink experience”, del brindisi eterno. Ma il brindisi è finito. E chi non si adatta, verrà travolto.
Per decenni il settore dell’alcol ha galleggiato sull’abitudine e sulla rimozione. Oggi, a sostenerlo, restano solo i baby boomer. Ma i giovani? Bevono kombucha, fanno yoga, e postano l’aperitivo senza gin. Un tempo era trasgressione. Ora è autocura.
L’industria può continuare a raccontarsi che è solo un ciclo. Ma questa non è una crisi. È una transizione. E il conto, stavolta, lo pagano loro.