Intelligenza emotiva: il cuore che pensa

Tutti parlano di competenze e performance, ma ci si dimentica spesso del valore più semplice e profondo: saper riconoscere le emozioni, proprie e altrui.

A scuola, quando c’erano ancora i banchi di legno e le cartelle che odoravano di carta e pane imbottito, nessuno parlava di intelligenza emotiva. Però la praticavamo. Con un gesto, uno sguardo, un silenzio rispettato. Non servivano libri o corsi, bastava vivere con attenzione e cuore.

Oggi ci riempiono la testa di definizioni, come se la sensibilità si potesse insegnare a tavolino. Ma chi sa capire quando una persona ha bisogno di compagnia o quando è meglio lasciarla in pace, possiede una forma rara di intelligenza. Una di quelle che non fanno curriculum, ma tengono in piedi relazioni, famiglie, comunità.

In tanti anni tra scuole, riunioni e corridoi di ospedale, ho visto persone brillanti cadere per una parola sbagliata. E persone semplici, ma capaci di ascoltare, diventare punti di riferimento. Perché la vera forza è sapere stare accanto agli altri, senza invadere né ignorare.

Quando si educa, si deve partire da qui: aiutare i ragazzi a dare un nome alla rabbia, alla tristezza, alla paura. Non per indebolirli, ma per renderli più forti. Chi conosce le proprie emozioni non ne è schiavo. Chi sa riconoscere quelle degli altri, non ferisce con leggerezza.

La testa serve, eccome. Ma se non la si mette al servizio del cuore, diventa solo una macchina che fa rumore.

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