Il mito della disponibilità: quando dire sempre sì diventa una forma di sfruttamento

Essere disponibili è un valore. Ma quando diventa obbligo, quando si confonde con la paura di dispiacere, allora smette di essere una virtù e diventa un’abitudine pericolosa. Anche nelle relazioni, come nel lavoro.

C’è una linea sottile tra la solidarietà e l’autoannullamento. Una linea che, troppo spesso, soprattutto le donne, si abituano a oltrepassare. Per cultura, per educazione, per paura. Disponibili a tutto, sempre. Ma a che prezzo?

Questa cultura del “sì”, del “va bene lo stesso”, del “faccio io”, è il frutto di decenni di colpe distribuite male: sulle spalle di chi tiene in piedi famiglie, scuole, ospedali, sindacati, uffici. Chi non ha mai fatto un passo indietro, oggi si trova con la schiena piegata. E non per stanchezza fisica, ma per un’usura emotiva e politica.

La disponibilità è stata trasformata in risorsa da sfruttare. Siamo passati dal rispetto reciproco alla connessione permanente, all’obbligo di esserci sempre, di rispondere subito, di dimostrare costantemente che si è presenti, che si è utili.

Nel mondo del lavoro, questo si chiama iper-prestazione. Nella vita privata, ricatto affettivo. E in entrambi i casi, si fonda sulla paura: di perdere un’opportunità, un incarico, una persona.

Ma se il tuo valore dipende dalla tua reperibilità, allora non sei rispettato: sei solo comodo.

Chi si è sempre fatto in quattro — a scuola, al sindacato, in famiglia — sa bene che la vera forza non è dire sempre sì, ma sapere quando dire no.
Perché ogni “no” giusto, protegge un “sì” autentico.
E soprattutto, protegge te.

Serve una nuova cultura della presenza: fatta di confini chiari, di reciprocità, di rispetto. Non siamo infinite. Non siamo inesauribili.
Siamo persone. E valiamo anche quando non possiamo esserci.

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