Una ragazza scomparsa, tre amici che tornano, una verità che non consola: il primo romanzo di Colin Walsh è una ferita che continua a pulsare
Kinlough, costa ovest dell’Irlanda. Un paese che non cambia, anche quando cambia tutto. Quando riaffiorano i resti di Kala, scomparsa quindici anni prima, il tempo si piega. Helen, Joe e Mush – i suoi amici di allora – tornano per il funerale. Ma non è solo un corpo quello che riemerge. Sono gli anni sospesi, le parole non dette, i desideri lasciati a metà.
Con Kala (Fazi, traduzione di Stefano Tummolini), Colin Walsh firma un esordio potente, che rifiuta le scorciatoie del genere per restituire qualcosa di più intimo, più vero. Un racconto sull’adolescenza come luogo estremo, dove ogni emozione è troppo grande per essere contenuta, e ogni legame troppo fragile per durare davvero.
Il romanzo si muove tra passato e presente, ma non è un esercizio di stile: ogni salto nel tempo è un ritorno a una stagione in cui tutto sembrava urgente, definitivo, assoluto. La scrittura è tesa, piena di immagini che restano negli occhi. L’atmosfera è densa, attraversata da pioggia, musica e malinconia. Ma non c’è nostalgia: c’è piuttosto il tentativo di fare i conti con quello che siamo stati, e con quello che abbiamo lasciato andare.
Helen, Joe, Mush. E Kala. Quattro ragazzi che si sono amati, feriti, persi. E che ora fanno i conti con quello che resta. Il giallo – se c’è – non sta nel chi, ma nel come. E soprattutto nel perché. Le domande vere sono quelle che si aprono nel lettore: cosa significa crescere? Cosa ci portiamo dietro degli amici di allora? Cosa perdiamo, quando smettiamo di crederci invincibili?
Kala è un romanzo che non cerca di rassicurare. Non risolve. Non chiude. Lascia una fessura aperta, da cui entra luce e vento. E forse è proprio lì, in quella crepa, che qualcosa continua a vivere.