Dalla tradizione maya alle cerimonie contemporanee: il cacao torna a parlare alla coscienza collettiva
Il cacao sacro non è un trend da influencer. È un richiamo antico che torna a farsi sentire, soprattutto adesso, mentre tutto intorno sembra anestetizzato.
I popoli mesoamericani – Maya, Olmechi, Aztechi – lo consideravano un dono degli dèi. Ma non perché fosse buono: perché era potente. Lo bevevano in riti religiosi, lo offrivano ai morti, lo usavano come moneta. Era sangue vegetale, era spirito, era alleanza con la Terra. Poi arrivarono i conquistadores: lo addolcirono, lo impacchettarono, lo trasformarono in merce.
Oggi, dopo secoli di silenzio, quel cacao sta tornando. Non quello industriale. Ma quello vivo, amaro, preparato secondo rituali ancestrali. In alcune cerimonie contemporanee – soprattutto nel Sud globale ma anche nei centri urbani occidentali – si beve per aprire il cuore, non per stimolare like.
Non c’è nulla di magico. C’è piuttosto la voglia di stare, di ascoltare, di sentire. Si beve, si respira, si canta. E il cacao – vero, crudo, lavorato a mano – fa il suo lavoro: non sballa, ma accende. Porta calore al petto, lucida i pensieri. E se sei disposto a restare, qualcosa succede.
Il suo ritorno è anche politico. Ogni tazza è un atto di resistenza culturale: contro il colonialismo, contro l’industria che devasta, contro la spiritualità da discount. Chi lo coltiva davvero – in Guatemala, in Perù, in Messico – non lo fa per vendere pacchetti da 12 euro su Etsy, ma per sopravvivere. Perché quel sapere non scompaia.
Il cacao sacro non è una scorciatoia. È una via lunga, che passa per il corpo, per la storia, per il rispetto. Ma chi ha voglia di stare scomodo, a volte ci trova la verità.