Colori sabbia, lino slavato, cappucci anti-sole e occhiali a visiera. Dall’Arizona a Catania, la nuova moda “resistente al caldo” è qui.
Il desertcore non arriva da un capo firmato, ma da un’esigenza. Nelle città bollenti, nei festival in mezzo al nulla, nelle periferie che si sbriciolano sotto il sole, si vedono spuntare look ispirati al deserto: lunghi cappucci, tessuti slavati, colori che sembrano scoloriti dalla sabbia. Ma è tutto voluto. Solo funzionalità e atmosfera.
Il corpo viene coperto, non per nasconderlo ma per proteggerlo.
Il viso, schermato da lenti scure e visiere, si trasforma in uno scudo.
Il tessuto assorbe. Stringe, lascia respirare.
Le passerelle lo stanno interpretando. I brand underground lo rilanciano. I social lo esaltano. Ma nei mercatini delle città meridionali, tra camicie a 5 euro e cappelli dimenticati dagli anni ’80, c’è già tutto quello che serve per costruirlo davvero.
Il desertcore è povero, ma ricco di senso. È lo stile delle periferie bollenti, dei pomeriggi in motorino sotto il sole, dei cappucci improvvisati. È la risposta alla crisi climatica fatta outfit. È moda che non ha bisogno di spiegarsi.
E se oggi i giovani lo portano a scuola, domani forse lo indosseranno tutti.
Perché il caldo è diventato la norma.
E questo stile – nato dalla polvere – è il primo ad averlo capito.