Non sempre il libro è meglio del film. E “Il diavolo veste Prada” di Lauren Weisberger ne è la prova lampante.
Se nel film Miranda Priestly ha il volto indimenticabile di Meryl Streep e Anne Hathaway riesce a rendere credibile l’evoluzione della giovane Andrea Sachs, nel romanzo i personaggi sembrano invece camminare su binari predefiniti, come automi incapaci di stupire o emozionare davvero.
Andrea, 23 anni, fresca di laurea e con il sogno di diventare scrittrice, si ritrova a lavorare come assistente personale della temibile direttrice di Runway, la rivista di moda più famosa di New York. La promessa? Una carriera fulminante, a patto di sopportare per un anno l’infernale Miranda, donna tanto elegante quanto spietata. Un inferno di telefonate a tutte le ore, capricci assurdi, ordini che non ammettono errori, sacrificando nel frattempo amicizie, amori e un briciolo di salute mentale.
La trama, sulla carta, funzionerebbe pure. Ma Lauren Weisberger, forse troppo vicina all’ambiente che racconta, non riesce a dare profondità ai suoi personaggi. Andy sembra recitare una parte scritta da altri, senza mai prendere davvero in mano la propria storia. E Miranda, anziché risultare affascinante nella sua crudeltà, scivola spesso nella caricatura.
Il momento della svolta – quando Andrea, a Parigi, decide di abbandonare tutto per tornare dall’amica in coma – avrebbe potuto essere un picco emotivo. Invece scivola via, in un copione già visto, senza mordente.
Certo, l’idea di fondo è chiara: diventare come Miranda non è il sogno di Andrea. Ma il percorso che la porta a questa consapevolezza è raccontato senza quella complessità umana che ci si aspetterebbe. Tutto fila troppo liscio, troppo prevedibile. E allora succede qualcosa di raro: la versione cinematografica riesce dove il libro fallisce.
In definitiva, “Il diavolo veste Prada” è uno di quei romanzi che si leggono senza fatica, ma si dimenticano altrettanto facilmente. Personaggi piatti, evoluzioni telefonate, poco spazio per l’imprevisto. Un’occasione sprecata.