Quando i custodi diventano censori: il caso Güneştekin

La povertà ha un odore. Le scarpe logore delle vittime di Roboski, i calzari di plastica dei minatori di Soma, le calzature consumate degli esuli ezidi. Centinaia di scarpe indossate da persone povere, donne, anziani, bambini, lavoratori che Ahmet Güneştekin aveva disposto nella Sala delle Battaglie della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un’installazione intitolata “Picco di memoria”, che si nutre di fatica violenza e stermini.

L’opera non è durata nemmeno una settimana. Le organizzazioni sindacali, FP CGIL, CISL FP, e UILPA hanno indirizzato alla Dirigente e al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione una richiesta ispezione per verifica condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, lamentando che le “opere in questione emanano un odore acre e pungente che sta rendendo insopportabile la permanenza nel settore”.

L’artista turco-curdo ha accettato di rimuovere l’installazione. “Ho sentito però di dover rispettare il loro disagio pur avendo la certezza che l’opera non è fuori delle norme sanitarie sulla base di certificazioni di cui sono in possesso”, ha spiegato. Una gentilezza che non nasconde l’assurdità della situazione: in un museo che custodisce la memoria della nazione, i custodi hanno censurato la memoria dei senza voce.

Non è questione di igiene o sicurezza. L’odore non ci è parso così ingestibile, ha scritto chi ha visitato l’opera prima della rimozione. È questione di potere. Chi decide cosa può essere mostrato e cosa no? Chi stabilisce i limiti della sopportabilità dell’arte?

Güneştekin ha trasformato l’opera, creando un “cerchio del sole” di scarpe chiuse in sacchi di plastica (che limitano l’odore) al centro del quale ha posto solo un paio di calzature di bimbo e di donna. Un gesto di mediazione che, pur salvando il senso dell’installazione, rivela la fragilità del sistema museale italiano.

Il paradosso è stridente: nei primi quattro mesi del 2025, 291 persone hanno perso la vita sul lavoro, ma contemporaneamente si tutela così fortemente i dipendenti museali al punto da consentire loro di esercitare una censura per una delle pochissime opere d’arte contemporanea che con molta probabilità avrebbe saputo davvero fare il proprio mestiere.

La vicenda Güneştekin non è un incidente isolato, ma il sintomo di un sistema che ha perso la bussola. Quando si attribuisce a dipendenti un potere che nessuna lobby immaginerebbe mai di poter esercitare, il museo smette di essere uno spazio di confronto e diventa un luogo di controllo.

L’arte vera disturba. Fa male. Puzza, se necessario. E un sistema culturale maturo dovrebbe saperlo proteggere, non piegarlo alle comodità di chi lavora fra quelle mura. Perché quando i custodi diventano censori, è la cultura stessa a puzzare.


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