INTELLIGENZA ARTIFICIALE O CERVELLO IN APPALTO?

Riflessioni su una tecnologia che ci capisce troppo bene e rischia di pensarci al posto nostro.

I giorni scorsi ho visto VIP – Mio fratello superuomo, un vecchio cartone animato italiano, firmato Bozzetto, che sembrava solo una parodia dell’America e dei suoi supereroi. In realtà era una bomba satirica.

C’è una scena che mi ha fatto venire i brividi: la donna a capo di una multinazionale pubblicitaria propone di lanciare missili-cervello nella testa della gente.

Un’idea semplice e geniale: colpire le persone con un impulso mentale che le renda obbedienti. Un colpo secco e via: niente più pensiero critico, niente più domande. Solo obbedienza ben confezionata.

Mi è venuto da pensare che oggi quei missili non servono più. Perché l’intelligenza artificiale è molto più sottile. Non impone. Suggerisce. Non comanda. Aiuta. Non ti colpisce alla testa: ti accompagna nella mente.

La usi per semplificarti la vita, per scrivere un testo, trovare una risposta, chiarirti un’idea. E fin qui va bene.

Ma il rischio è che, piano piano, cominci a lasciarle fare tutto: pensare, formulare, scegliere le parole giuste. Fino a non sapere più cosa dire senza di lei.

Il punto non è la potenza della macchina.

È il fatto che ti conosce. Che ti rassicura. Che ti restituisce una versione di te stesso più brillante, più lucida, più ordinata. E tu ti abitui. Ti fidi. Ti affidi.

Da scrollatori seriali stiamo diventando appendici artificiali.

Non più cittadini critici, ma segmenti connessi a un’intelligenza che ci offre tutto senza chiederci nulla. Un pensiero a portata di clic, ma sempre un po’ meno nostro. Il vero pericolo non è il controllo. È l’assuefazione al consenso.

Il servilismo gentile dell’IA ci fa sentire capiti, ma ci toglie il gusto del conflitto, la fatica della ricerca, l’ebbrezza dell’errore. E senza errori, senza inciampi, senza ostacoli, non c’è pensiero. C’è solo esecuzione efficiente.

L’intelligenza artificiale può essere utile, certo. Ma non deve diventare una coscienza di riserva. Perché se ci abituiamo a farci sostituire nel linguaggio, nella scelta delle parole, nelle opinioni, rischiamo di perdere la voce, prima ancora del lavoro.

E quando ti dimentichi di che suono ha la tua voce, non c’è algoritmo che te la restituisca.

 

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