Novemila prodotti al giorno. Novemila. Ogni ventiquattro ore, sui server di Shein compaiono più capi di abbigliamento di quanti ne vedrebbe un romano medio in un anno di shopping. È il nuovo Colosseo della modernità: un’arena dove il sangue versato non si vede, ma scorre nelle falde acquifere del Bangladesh e nelle discariche del Ghana.
Mentre l’Antitrust italiana indaga la piattaforma cinese per greenwashing – finalmente, diremmo – la macchina del fast fashion continua a macinare illusioni. L’istruttoria mette in evidenza un apparente paradosso: mentre Shein enfatizza il proprio impegno verso la decarbonizzazione, i rapporti sulla sostenibilità per il 2022 e il 2023 indicano un incremento delle emissioni di gas serra. Un incremento dell’81% tra 2022 e 2023, per l’esattezza. Ma tanto, chi legge i report?
La verità è che la sostenibilità nel fast fashion è come la democrazia negli stadi di calcio: uno slogan che suona bene ma che non regge alla prova dei fatti. La collezione “sostenibile” rappresenterebbe meno dell’1% dei prodotti di Shein. È come se la Coca-Cola si dichiarasse un’azienda farmaceutica perché vende anche l’acqua.
Il meccanismo è rodato: si prende il poliestere riciclato – che non è più riciclabile e rilascia microplastiche a ogni lavaggio – si infila in una capsule collection dalle tinte verdi e si urla al mondo di aver salvato il pianeta. Nel 2022, Greenpeace ha accusato Shein di “portare il greenwashing a un nuovo minimo” dopo aver promesso 14 milioni di dollari a un’ONG per i lavoratori dei rifiuti tessili, pur continuando a produrre abbigliamento “usa e getta”.
Ma il vero scandalo non è il greenwashing. È che funziona. È che milioni di persone comprano t-shirt a 3 euro convinte di fare un affare, ignorando che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo. È che l’industria della moda è responsabile del 10% delle emissioni serra sul pianeta e del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile, ma continuiamo a chiamarla “moda accessibile”.
Accessibile a chi? Ai bangladesi che respirano fumi tossici nelle fabbriche clandestine? Ai ghanesi che vedono i propri fiumi trasformati in cloache multicolori? Ai lavoratori che cuciono 14 ore al giorno per salari da fame? In Bangladesh la situazione ambientale è particolarmente critica: nelle fabbriche al confine con la legalità che spesso impiegano anche bambini, le sostanze chimiche irritanti e altamente inquinanti sono usate senza protezione e poi riversate in canali e fiumi senza trattamento.
Il paradosso finale è questo: stiamo assistendo alla più grande operazione di colonialismo ambientale della storia, travestita da democratizzazione della moda. I rifiuti tessili europei finiscono per il 60% nel continente africano, dove al mercato di Kantamanto ad Accra solo il 10% degli abiti può essere rivenduto, il restante 90% viene sversato in enormi discariche a cielo aperto.
E mentre Shein e i suoi cloni continuano a produrre vestiti che durano meno delle mode di TikTok, noi continuiamo a chiamarla “industria creativa”. Come se ci fosse qualcosa di creativo nel copiare un design in quattro ore e farlo cucire da un bambino di dodici anni.
Il nuovo Colosseo non ha bisogno di leoni. Ha qualcosa di più efficace: ha convinto le vittime che il sangue versato è il prezzo della civiltà. E i gladiatori siamo noi, ogni volta che clicchiamo “aggiungi al carrello” pensando di aver fatto un affare.
L’unica differenza è che stavolta, quando cadrà l’impero, non resteranno nemmeno le rovine. Solo microplastiche nel sangue e discariche che odorano di futuro cancellato.