A Tokyo il kimono è memoria, a Milano diventa dichiarazione.
Nelle nuove collezioni estive, il capo più emblematico della tradizione giapponese non è più un’eco nostalgica ma una base su cui riscrivere. Si vedono kimono destrutturati, portati con sneakers, cinture industriali, occhiali da sci. Un cortocircuito visivo che
C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. O forse di profondamente giusto. Non riesco a decidermi mentre guardo questa ragazza che esce dalla metropolitana con addosso quello che una volta si chiamava kimono e ora non si sa più come chiamare.
Non è più un kimono, questo è certo. È qualcos’altro. Una specie di vestaglia da camera portata in strada, annodata con una cintura che sembra rubata a un operaio, abbinata a scarpe da ginnastica che costano più del mio affitto. Sul collo ha degli occhiali che sembrano progettati per scalare l’Everest, non per attraversare corso Buenos Aires un martedì mattina.
Mi viene da pensare ai miei nonni. Cosa direbbero? Probabilmente niente. I miei nonni hanno visto cose peggiori. Hanno visto la guerra, hanno visto il boom economico, hanno visto arrivare la televisione. Forse un kimono fuori posto non li sconvolgerebbe più di tanto.
Ma c’è qualcosa che mi infastidisce in questa facilità. In questa leggerezza con cui prendiamo pezzi di mondo e li incastriamo nei nostri guardaroba come se fossero tessere di un puzzle. Il kimono nasce da secoli di rituale, di gesti precisi, di significati stratificati. E ora eccolo qui, trasformato in dichiarazione di stile da una ventenne che probabilmente non saprebbe neanche legare l’obi nel modo giusto.
Eppure.
Eppure c’è qualcosa di bello in questo disastro. In questa contaminazione selvaggia che non chiede permesso a nessuno. La moda è sempre stata così: un atto di saccheggio. Prende quello che le serve, lo strappa dal suo contesto, lo rimodella secondo i suoi bisogni. È violento e poetico allo stesso tempo.
La ragazza del metrò non sta offendendo nessuno. Sta solo vivendo in un mondo dove tutto è possibile, dove le culture si mescolano senza chiedere il permesso, dove un capo giapponese può incontrare scarpe americane e cinture tedesche senza che nessuno muoia.
Forse è questo il punto. Non stiamo rubando, stiamo traducendo. Non stiamo copiando, stiamo riscrivendo. Il kimono di oggi non appartiene più solo al Giappone, così come i jeans non appartengono più solo all’America. Sono diventati linguaggio universale, parole che tutti possono usare per raccontare la propria storia.
La ragazza scende alla sua fermata. La guardo allontanarsi con quel suo kimono impossibile, e penso che forse abbiamo sbagliato tutto. O forse abbiamo fatto tutto giusto. Non lo sapremo mai. La moda non aspetta che noi capiamo. Va avanti e basta, lasciandoci dietro con i nostri dubbi e le nostre certezze che non servono a niente.
Domani probabilmente vedrò qualcun altro con qualcos’altro addosso che una volta significava tutt’altro. E mi farò di nuovo le stesse domande. E non troverò di nuovo le stesse risposte.