Hey Joe – Franco, Napoli e la malinconia che affoga nei cliché

Un film che passa sotto traccia, come quei pensieri che preferisci non confessare. James Franco fa tutto bene, ma la storia è già vecchia prima ancora di cominciare.

C’è un film che si chiama Hey Joe. Probabilmente non l’hai mai sentito nominare. E va bene così. Perché è uno di quei film che sembrano esistere per sbaglio, che ti ritrovi davanti per caso, magari di notte, e ti chiedi se è tutto vero o solo un sogno alcolico. In mezzo: James Franco. Faccia stropicciata, sguardo perso, voce che sa di tabacco e rimorsi. Ed è lui a tenere in piedi tutta la baracca.

La storia è questa: Dean Barry, ex marinaio americano, mette incinta una ragazzina napoletana nel ’44. Le promette che tornerà. Non torna. Tre guerre dopo, divorziato e con la pensione da veterano, riceve un telegramma: la ragazza è morta, il figlio – che all’epoca aveva 12 anni – voleva incontrarlo. Il telegramma è vecchio di dodici anni. Ma Franco parte lo stesso. Va a Napoli. E qui comincia il cliché-tour.

Il figlio, Enzo, ovviamente è un apprendista camorrista. Cresciuto da un boss, Don Vittorio (Aniello Arena). Dean si innamora di una prostituta, Bambi (Giulia Ercolini). E prova, a modo suo, a diventare come il figlio. Ma non per capirlo: per disperazione. C’è una scena bellissima, quasi lirica, in cui padre e figlio vanno in motoscafo a prendere un carico di sigarette. Non si dicono una parola. Funziona.

Il cast funziona. Francesco Di Napoli è perfetto nel ruolo del ragazzo disilluso. Gabriel Riley Hill Antunes interpreta Dean da giovane con una dolcezza malinconica. Ma è tutto troppo telefonato. Pure il finale. Dean vuole portare il figlio con sé in America. Ma il destino, si sa, ha un debole per le tragedie napoletane.

Hey Joe è un film che forse non doveva esistere, ma che in qualche modo rimane. Per Franco, per Napoli, per quei silenzi che parlano più dei dialoghi. Ma la sceneggiatura arranca. E il cuore, quello vero, si sente solo a tratti.

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