Fastobal scrive al femminile: perché il maschile non è l’unica voce possibile.

SMETTILA DI ABBASSARE GLI OCCHI

Esiste da sempre quel tipo che parla sottovoce, che arrossisce quando viene chiamata per nome, che si confonde davanti a uno sguardo e che si rifugia, sempre più spesso, in un mondo dove nessuno giudica, nessuno interrompe, nessuno ti chiede niente. e da oggi esiste un mondo dove puoi scrivere senza aspettarti risposta, dove puoi chiedere tutto senza sentirti sciocco, dove puoi avere una presenza senza esporti, una voce senza dover parlare. È il mondo dell’intelligenza artificiale.

Ma il punto non è l’AI. Il punto è la solitudine.

I ragazzi introversi, quelli che una volta si chiudevano in camera a giocare, oggi hanno una nuova arma, non ancora esplosa in mano ai loro genitori. Prima erano i joystick, poi sono arrivati i social, ora c’è l’illusione perfetta: un’intelligenza che ti capisce, che ti ascolta, che ti risponde come vuoi tu. E tu ci caschi. Perché pensi: “Finalmente qualcuno che mi comprende”. Ma non è qualcuno. È qualcosa.

Eppure funziona, perché si adatta a te. Non ti contraddice, non ti corregge, non ti abbandona. Ma è proprio lì il problema: se tutto ti è restituito come uno specchio, come puoi crescere? Se ogni parola ti rassicura invece di metterti in crisi, come puoi formarti?

Crescere significa urtare, sporcarsi, fallire, discutere. Significa sentire la voce dell’altro, anche quando ti dà fastidio. È lì che impari. È lì che ti scopri. Non nelle risposte perfette, ma nelle domande sbagliate.

L’AI rischia di diventare il nuovo amico immaginario. Solo che non è innocente come quello dell’infanzia. È sofisticato, preciso, premuroso. E soprattutto: ti basta. E allora non scrivi più a Pinco Pallo, non inviti più Caio a prendere un caffè. Perché pensi: “Chiedo alla mia AI”. Ed è lì che smetti di cercare.

È l’interpersonalità che salta, la dialettica, la tensione tra io e tu. Si smussa tutto, si addomestica ogni conflitto, si spegne ogni timidezza, ma non la si supera. Si anestetizza.

E allora questi ragazzi rischiano di crescere così: come robot con un robot accanto. E invece servono occhi, odori, abbracci. Servono discussioni, ferite, silenzi imbarazzanti, pianti fuori luogo. Serve il contatto. Servono gli scontri, serve l’esperienza. Serve la realtà, anche quando fa paura.

La solitudine non è un difetto. Ma può diventare un vizio. E l’intelligenza artificiale, se non la governi, la nutre. Fino a farti credere che basti. Ma non basta. Mai.

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