C’è un momento, tra l’asciugamano che scivola e il pigiama che arriva troppo tardi, in cui ti ritrovi nuda davanti allo specchio. Non per scelta. Per disattenzione, fretta, stanchezza. Ed è lì che succede: lo sguardo si incaglia. Su una curva che prima non c’era, su una piega nuova, su un seno che si è abbassato anche oggi di mezzo millimetro. Ti osservi e ti giudichi, tutto in una frazione di secondo. Senza volerlo davvero, ma senza riuscire a farne a meno.
Non siamo cresciute imparando a guardarci. Ci hanno insegnato a coprirci, a stringere, a contenere. Mai a riconoscere. Le nostre madri si infilavano la guaina, le zie si chiudevano in bagno per truccarsi, e noi abbiamo assorbito la vergogna come si assorbe il sapone sulla pelle: senza accorgercene.
Il corpo femminile — anche il più sano, il più giovane, il più conforme — è stato sempre qualcosa da modificare, perfezionare, ridurre. Mai qualcosa da abitare.
E allora capita che, anche oggi, a trent’anni suonati o quaranta o sessanta, ti ritrovi a evitare lo specchio. A spogliarti al buio. A scegliere solo vestiti che coprono. Non per pudore. Per fatica.
Perché ogni volta che ti guardi, invece di vederti, ti confronti. Con la te di prima. Con quella che eri. Con quella che vorresti essere. Con tutte le altre.
Eppure, c’è un altro modo. Non facile, non rapido, non lineare. Ma possibile.
Si comincia da un dettaglio: una clavicola, una fossetta sul fianco, il modo in cui le mani reggono una tazza. Piccoli punti di luce da cui ripartire. Non si tratta di piacersi sempre. Si tratta di non odiarsi più.
Il corpo cambia, certo. Ma cambia anche lo sguardo. Possiamo smettere di farci la guerra. Possiamo, almeno per una volta, guardarci senza vergogna.


